Ebbene sì, abbiamo deciso anche noi di consigliarvi qualche lettura per rendere questo nostro tempo libero in reclusione il più possibile ameno e perché no, anche utile alla riflessione su vari temi.

Partiamo dalla spiritualità di un’opera immortale come Siddharta ambientata nell’India più profonda e sconosciuta, che oltre a farci assaporare paesaggi e culture diverse, ci invita all’introspezione e ci regala una visione diversa della vita; proseguiamo il viaggio in Birmania con quella che a prima vista può essere scambiata per una banale storia d’amore, ma che nasconde ciò che in fondo sono le difficoltà, la bellezza, le gioie e i dolori che costituiscono la vita.

A seconda del momento storico, del luogo, e delle qualità fisiche con cui nasciamo, tutto quello che viviamo ne è influenzato in modo definitivo, ed è il caso del terzo della nostra lista, che cambia sfondo geografico e culturale. Come sarebbe stato il nostro piccolo mondo se fossimo vissuti in un Paese cosi multiculturale, multireligioso e politicamente instabile come Israele? 

E se ci fossimo trovati in India nel momento sbagliato, quando qualcuno decise che la nostra casa era sulla linea di un confine che avevano appena definito? Ed anche se fossimo cresciuti in Indonesia nel periodo sbagliato, saremmo stati succubi di un Occidente in espansione che ci avrebbe tolto tutto e costretti a fare i conti con le parti peggiori della natura umana.

Ma tornando al mondo interiore e ad un protagonista la cui esistenza comincia in un posto più fortunato quale è il Giappone moderno, scopriamo che anche senza guerre e soprusi dobbiamo fare i conti con i nostri fantasmi, probabilmente provenienti da vite passate. Lo stesso accade per il numero sette della nostra lista, di nuovo in India ma questa volta narrato da una voce occidentale, una persona che deve fare i conti con altre miriadi di fantasmi interiori e non, indotti e innati.

Per finire torniamo a una lettura dai toni più leggeri, un classico attuale e senza tempo ambientato nell’incontaminato Giappone dell’epoca Heian, che ci avvicina dolcemente a quello che davvero importa, alle relazioni più profonde con gli altri e con la natura, che ci nutre e accoglie. Quindi pensiamo a come sarebbe il mondo senza di noi: un saggio che ci spiega, forse con note un po’ crude, che magari se lo curiamo un po’, questo nostro pianeta, possiamo smettere di pensare all’apocalisse e possiamo goderci il tempo che abbiamo in equilibrio col mondo. Last but not least, una simpatica raccolta di idee e spunti per stimolare la nostra creatività e immaginazione.

Ecco la nostra Top 10:

 

Chi è Siddharta? È uno che cerca, e cerca soprattutto di vivere intera la propria vita. Passa di esperienza in esperienza, dal misticismo alla sensualità, dalla meditazione filosofica alla vita degli affari, e non si ferma presso nessun maestro, non considera definitiva nessuna acquisizione, perché ciò che va cercato è il tutto, il misterioso tutto che si veste di mille volti cangianti. E alla fine quel tutto, la ruota delle apparenze, rifluirà dietro il perfetto sorriso di Siddharta, che ripete il “costante, tranquillo, fine, impenetrabile, forse benigno, forse schernevole, saggio, multirugoso sorriso di Gotama, il Buddha, quale egli stesso l’aveva visto centinaia di volte con venerazione”. Siddharta è senz’altro l’opera di Hesse più universalmente nota. Questo breve romanzo di ambiente indiano, pubblicato per la prima volta nel 1922, ha avuto infatti in questi ultimi anni una strepitosa fortuna. Prima in America, poi in ogni parte del mondo, i giovani lo hanno riscoperto come un loro testo, dove non trovavano solo un grande scrittore moderno ma un sottile e delicato saggio, capace di dare, attraverso questa parabola romanzesca, un insegnamento sulla vita che evidentemente i suoi lettori non incontravano altrove.

A Kalaw, una tranquilla città annidata tra le montagne birmane, vi è una piccola casa da tè dall’aspetto modesto, che un ricco viaggiatore occidentale non esiterebbe a giudicare miserabile. Il caldo poi è soffocante, così come gli sguardi degli avventori che scrutano ogni volto a loro poco familiare con fare indagatorio. Julia Win, giovane newyorchese appena sbarcata a Kalaw, se ne tornerebbe volentieri

in America, se un compito ineludibile non la trattenesse lì, in quella piccola sala da tè birmana. Suo padre è scomparso. La polizia ha fatto le sue indagini e tratto le sue conclusioni. Tin Win, arrivato negli Stati Uniti dalla Birmania con un visto concesso per motivi di studio nel 1942, diventato cittadino americano nel 1959 e poi avvocato newyorchese di grido… un uomo sicuramente dalla doppia vita se le sue tracce si perdono nella capitale del vizio, a Bangkok. L’atroce sospetto che una simile ricostruzione della vita di suo padre potesse in qualche modo corrispondere al vero si è fatto strada nella mente e nel cuore di Julia fino al giorno in cui sua madre, riordinando la soffitta, non ha trovato una lettera di suo padre. La lettera era indirizzata a una certa Mi Mi residente a Kalaw, in Birmania, e cominciava con queste struggenti parole: “Mia amata Mi Mi, sono passati cinquemilaottocentosessantaquattro giorni da quando ho sentito battere il tuo cuore per l’ultima volta”.

Noa, studentessa di fotografia a Gerusalemme e Amir, studente di psicologia a Tel Aviv, decidono per convenienza di spostamenti di trasferirsi in un villaggio a metà strada tra le due città. Castel – questo è il nome del villaggio – è un’ex enclave araba abbandonata nel 1948 e da allora divenuta dimora di una comunità ebraica proveniente dal Kurdistan. I due ragazzi sviluppano da subito un rapporto di caldo vicinato con i padroni di casa, gli Zakian e con una famiglia che vive nei dintorni, segnata dalla tragedia della morte di uno dei figli, ucciso in Libano e il cui secondogenito stringerà un’amicizia fraterna con Amir. Questo intreccio di sentimenti e drammi privati si complicherà quando un operaio palestinese di nome Saddiq che sta svolgendo dei lavori nei paraggi riconoscerà nella casa dove abitano Noa e Amir l’abitazione da cui la propria famiglia era stata scacciata all’arrivo dei coloni ebrei. Di quella casa Saddiq possiede ancora la chiave, e si fa forte in lui, giorno dopo giorno, il desiderio di entrare furtivamente nell’appartamento della sua infanzia. Il giorno in cui cede alla tentazione, ritrovando tra l’altro un gioiello che sua madre aveva nascosto dietro a un mattone, verrà arrestato come sospetto terrorista. Intanto, sulle esistenze di Noa, Amir e degli altri abitanti del quartiere, si stende il velo nero di una tragedia collettiva: è il 4 novembre del 1995 e Yitzak Rabin, capo del governo, viene assassinato…

1947 a Lahore Lenny, la piccola voce narrante di questo libro, ha compiuto otto anni. Nella bella casa dei suoi genitori, Lenny si interroga sulle nubi che offuscano la sua infanzia. Perché Gelataio, Sher Singh, Massaggiatore e Macellaio, i corteggiatori di Ayah, la sua giovane tata, non scherzano più e si accapigliano con cattiveria e foga su Gandhi, Nehru, Tara Singh e altri misteriosi nomi? Perché tutti sembrano diventati altri? in queste pagine la terribile spartizione dell’India del 1947, che generò il più grande esodo di popolazioni che la storia ricordi, appare sotto sembianze tragicomiche: una commedia domestica annuncia l’orrore, e la catastrofe si cela dietro uno spettacolare e divertente assortimento di piccoli orgogli e pregiudizi.

Il villaggio di Halimunda, nel cuore dell’isola di Giava, incanta da sempre abitanti e forestieri con le sue storie. Dalla principessa Rengganis, che sposò un cane perché nessun uomo era degno di lei, a Ma Iyang, che volò via da una rupe anziché rassegnarsi a un’esistenza infelice, una moltitudine di anime bizzarre e tormentate ha popolato la comunità di pescatori nel corso dei secoli. L’ultima erede di questa genia di figure prodigiose è Dewi Ayu, la prostituta più richiesta del bordello di Mama Kalong, madre di quattro irresistibili figlie. Le loro vicende di passione e dolore, lusinghe e violenza, si intrecciano alla storia dell’Indonesia del Novecento: all’avidità del colonialismo europeo e alla ferocia dell’occupazione giapponese, al sangue della rivoluzione comunista e alla brutalità della dittatura. Con romanticismo tragico e un’ironia strepitosa, che fa scintillare di luce grottesca lo squallore e il dramma, Eka Kurniawan dà forma a una saga caleidoscopica, ricca di magia, che è al tempo stesso il ritratto di un paese affascinante e una lucida e accorata lezione d’amore.

“Vorrei dieci minuti del tuo tempo”, disse senza preamboli una voce di donna, lo sono piuttosto bravo a riconoscere le persone dalla voce, quella li però non l’avevo mai sentita”. In un sobborgo di Tokyo il giovane Okada Toru ha appena lasciato volontariamente il suo lavoro e si dedica alle faccende di casa. Due episodi apparentemente insignificanti riescono tuttavia a rovesciare la sua vita tranquilla: la scomparsa del suo gatto e la telefonata anonima di una donna dalla voce sensuale. Toru si accorgerà presto che oltre al gatto, a cui la moglie Kumiko è molto affezionata, dovrà cercare Kumiko stessa. Lo spazio limitato del suo quotidiano diventerà il teatro di una ricerca in cui sogni, ricordi e realtà si confondono e che lo porterà a incontrare personaggi sempre più strani: dalla prostituta psicotica alla sedicenne morbosa, dal politico diabolico al vecchio e misterioso veterano di guerra. A poco a poco Toru dovrà risolvere i conflitti della sua vita passata di cui nemmeno sospettava l’esistenza. Un romanzo che illumina quelle zone d’ombra in cui ognuno nasconde segreti e fragilità.

Il bus della scalcagnata Veterans’ Bus Service, una compagnia di veterani dell’esercito indiano, è appena arrivato al capolinea di Colaba, la zona di Bombay dove si concentrano gli alberghi a buon mercato. Greg è il primo a mettere piede sul predellino e a farsi largo tra la folla di faccendieri, venditori di droga e trafficanti d’ogni genere in attesa davanti alla portiera. Ha una chitarra a tracolla, un passaporto falso in tasca e un turbinio di pensieri ed emozioni in testa. Nel tragitto dall’aeroporto a Colaba ha pensato di essere sbarcato in una città dopo una catastrofe. Davanti ai suoi occhi si è spalancata una distesa sterminata di miserabili rifugi fatti di stracci, fogli di plastica e carta, stuoie e stecchi di bambù. In preda allo stupore, Greg ha visto donne bellissime avvolte in stoffe azzurre e dorate incedere a piedi nudi in quella rovina, e uomini dai denti candidi e dagli occhi a mandorla, bambini dalle membra incredibilmente aggraziate. Ovunque, poi, aleggiava un odore acre e intenso. Quell’odore in cui, a Bombay, fiuti di colpo l’aroma del mare e il metallo delle macchine, il trambusto, il sonno, la lotta per la vita, i fallimenti e gli amori di milioni di esseri umani. Greg è un uomo in fuga. Dopo la separazione della moglie e l’allontanamento dalla sua bambina, la vita si è trasformata per lui in un abisso senza fine. Era un giovane studioso di filosofia e un brillante attivista politico all’università di Melbourne, è diventato «un rivoluzionario che ha soffocato i propri ideali nell’eroina», un «filosofo che ha smarrito l’integrità nel crimine», uno dei «most wanted men» australiani, condannato a 19 anni di carcere per rapina a mano armata, catturato e scappato dal carcere di massima sicurezza di Pentridge.

“Il ‘Genji monogatari’ viene spesso indicato come il primo esempio di romanzo psicologico. Se simili attribuzioni suonano sempre alquanto arbitrarie, leggendolo non si può evitare di avvertire quanto si proceda in profondità nello scandagliare l’animo umano e come il quadro che ne deriva sembri spesso in sintonia con il modo di sentire di oggi. Da questo punto di vista, esso merita a buon diritto il titolo di classico della letteratura universale, sebbene solo di recente, in pratica poco più di cento anni, sia entrato nell’orizzonte culturale occidentale e abbia preso a influenzarlo. La sua modernità risiede nella precisa volontà dell’autrice di non limitarsi a presentare intrecci tali da attirare l’attenzione e distrarre dalle pene quotidiane, ma anche di trasmettere sensazioni e sentimenti nella convinzione che altri possano e debbano condividerli. (…) Da questo punto di vista il collegamento con i grandi romanzi occidentali appare inevitabile, ma ogni forma di confronto, classificazione e competizione si rivela alla fine incongrua. Si può dire che Murasaki Shikibu ricorda nelle sue introspezioni Proust o che il ‘Genji monogatari’ sta al mondo cortese dell’anno Mille come ‘Madame Bovary’ sta al mondo borghese dell’Ottocento. Ma il ‘Genji monogatari’ non può non essere letto, analizzato, se possibile apprezzato, come un’opera profondamente, organicamente medievale. (…).” (dall’introduzione di Maria Teresa Orsi).

I cambiamenti climatici e le estinzioni biologiche sono solo alcuni dei parametri che oggi stanno andando fuori scala, mettendo in scacco l’umanità e determinando una proliferazione discorsiva senza precedenti intorno all’idea della “fine”: dal pensiero all’espressione artistica, una fioritura disforica di mitologie dell’Apocalisse infrange ogni ottimismo umanista e prometeismo dello sviluppo. Ma, nonostante illustri il punto definitivamente critico della storia della Terra cui siamo arrivati, questo non è un libro apocalittico: a ispirarlo è piuttosto la spinta alla rifondazione di un futuro “altro” per tutta la catena delle esistenze che compongono il pianeta. Che cosa si può opporre a questa virata verso il declino, per non restare “senza mondo”? Evocando la cosmopolitica degli indios amazzonici, basata su un’inesauribile diplomazia dei rapporti con “l’arena internazionale” dell’ambiente in cui vivono, gli autori rovesciano la questione in vista di una possibile resistenza: “Parlare della fine del mondo non significa parlare della necessità di immaginare un nuovo mondo al posto di quello presente, ma un nuovo popolo; il popolo che manca. Un popolo che crede nel mondo e che lo dovrà creare con ciò che gli lasciamo di esso”.

In un’epoca in cui il pensiero tende sempre più a semplificarsi e le opinioni vengono scambiate per idee, Ermanno Bencivenga ci ricorda il valore fondamentale e necessario dell’arte del pensare, il fascino e il piacere che può provocare il pensiero articolato e curioso. E ci spinge a chiederci: che cosa può tenere insieme gli asintoti e le massaie, le geodetiche e le zebre, la marginalità e le macchine del caffè? Il fatto che siano tutti concetti astratti, idee, da cui però possiamo trarre spunti e consigli da mettere in pratica nella vita di tutti i giorni. Con la sua capacità di far dialogare ambiti diversi e servendosi, quando è necessario, delle parole di pensatori illustri – come Platone, Aristotele, Arendt, Russell – l’autore ci consegna 100 idee che non sapevamo di poter sfruttare e altrettanti modi di utilizzarle: e così gli autotreni diventano una forma di esercizio per le nostre capacità deduttive e le oche uno strumento per misurare i “gradi” di una relazione; un capocomico un modello di approccio alle difficoltà e gli errori, attraverso la serendipità, inimmaginabili ponti verso i nostri migliori successi. Decine di collegamenti fra mondi solo all’apparenza distanti, brevi aneddoti densi dei significati più sorprendenti. Ma, soprattutto, ciò che Bencivenga regala al suo lettore è la capacità di guardare alle cose con occhi sempre nuovi e reinventare ogni giorno la propria realtà, scoprendola stimolante, multiforme e variegata.

E’ il momento di cambiare aria, segui la campagna ECO-CONSUMO e insieme contrasteremo i cambiamenti climatici!

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