In Siberia, nella regione di Krasnoyarsk, i massicci incendi stanno distruggendo ingenti porzioni della Grande Foresta del Nord.

Il problema, invece che essere arginato, sta acquisendo caratteristiche sempre più devastanti (e degenerative), tanto che sono stati distrutti 4,3 milioni di ettari di foresta (una superficie pari a quella di Lombardia e Piemonte insieme). 

La minaccia che questi incendi rappresentano per il nostro Pianeta risulta ancora più grave se consideriamo che da questi eventi deriva un’emissione di anidride carbonica di oltre 166 milioni di tonnellate che è – più o meno- la quantità emessa in un anno da 36 milioni di auto.

Uno degli effetti collaterali più allarmanti di questa catastrofe è la produzione di black carbon: si tratta di particelle nere che rischiano di finire nell’Artico e che, con ogni probabilità, si depositano sul ghiaccio e ne riducono l’albedo – il suo potere riflettente – facilitando così l’assorbimento di calore e contribuendo ulteriormente al riscaldamento globale.

La foresta Amazzonica Brucia anche per il consumo di carne.

Quando gli attivisti ecologisti hanno denunciato che gli allevatori amazzonici, incoraggiati dalla retorica di Bolsonaro, danno fuoco alla foresta per ricavare terra da sfruttare, il presidente li ha accusati di aver appiccato gli incendi per screditarlo. Bolsonaro ha ammesso di non avere alcuna prova, aggiungendo che la sua era “una sensazione”.

Naturalmente gli allevatori e le grandi industrie agroalimentari stanno appiccando gli incendi per distruggere la foresta, ma non è una novità legata all’avvento di Bolsonaro, è necessario inserire il fenomeno in un contesto più ampio: dietro agli incendi e alla deforestazione dell’Amazzonia non c’è solo la volontà politica di una leadership poco sensibile ai temi ambientali. C’è un sistema di produzione e di consumo alimentare che ha nel Brasile – e in quelle aree del Brasile – uno dei propri baricentri. È un sistema dove gran parte della popolazione mondiale fonda la propria dieta sul consumo di proteine animali, con un incremento notevole in alcuni paesi a rapida crescita, come la Cina.

Se il consumo di carne aumenta, aumentano gli animali da allevare, e aumenta la necessità di produrre materie prime agricole per i loro mangimi.

Gli allevamenti intensivi hanno bisogno di terre su cui si producano mais e soia, elementi essenziali dei mangimi animali. Ormai, sempre secondo Weis, un terzo di tutte le terre arabili è destinato non alla produzione di cibo per l’alimentazione umana, ma a prodotti per la zootecnia.

La foresta pluviale del continente nero è il secondo polmone verde del pianeta ed è altrettanto a rischio. Il cambiamento climatico è solo parte del problema. Senza una modernizzazione dell’agricoltura la pratica del “taglia e brucia” non potrà essere fermata

Anche il Congo è in Fiamme:

La pratica dell’incendio delle savane, detta “taglia e brucia”, non è nuova per il continente africano. È diffusa nella maggior parte degli stati africani, in particolare in quelli meno sviluppati. Per contadini e pastori è un mezzo pratico, diffuso e che ha radici lontane. Per così dire, un sistema ancestrale di gestione della terra. La Costa d’Avorio ne è un esempio. Tutta la parte centrale, boschiva, è stata distrutta proprio da questa pratica per avere terre coltivabili.

I cambiamenti climatici, tuttavia, hanno reso questa pratica ancora più diffusa, proprio per il venir meno delle terre coltivabili e fertili, o utilizzabili per i pascoli. Fattore, questo, che nel Sahel ha scatenato e scatena conflitti per lo sfruttamento della poca terra che rimane.

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